Oggi ho voluto rispondere a un po’ di domande vostre e considerazioni che mi avete scritto. Ne ho scelte sette:
- Perché no all’autopublicazione?
- Chi era la casa editrice top a cui miravi? Era la Mondadori?
- Non hai paura a scrivere di eventi e persone reali?
- Da che cosa hai attinto (libri, film ecc…) per scrivere questo libro?
- Perché hai detto che la documentazione sul fantasy non serve?
- Ti hanno scritto per il tuo video sul Covid?
- Perché il romanzo s’intitola “In un posto bello?
Le risposte nel video 🙂
E scoprite anche cosa rimase sul fondo del vaso di Pandora! 😉
Già ve ne ho parlato nel manuale ma la documentazione è necessaria per poter scrivere un buon libro.
Per me ne esistono due tipi e ve le spiego nel video.
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Spero che questo piccolo backstage del nuovo libro via sia utile.
AVVERTENZA: SE STATE CERCANDO UN POST PIENO DI LUOGHI COMUNI E FRASI FATTE, SMETTETE DI LEGGERE.
Chi mi conosce sa che io non sono politically corret; non tutti i bambini sono belli, non tutti gli anziani sono brave persone e il finto buonismo mi fa paura, più della vera cattiveria.
E ora mi trovo immersa in una voglia disperata di sembrare quello che non riusciamo veramente a essere nelle vita di tutti i giorni.
Ho vissuto sempre nel rispetto delle persone senza preoccuparmi del colore, della religione, dell’orientamento sessuale… Le uniche persone che non rispetto sono quelle che, con i loro comportamenti, mi hanno dimostrato di non essere degne di questo rispetto.
Perché il loro modo di essere o le scelte che altri fanno dovrebbero essere un problema per me? Se non si ripercuotono sulla mia vita…
Comunque, il punto qui è che si stanno facendo delle considerazioni assurde anche sui mestieri artistici tra cui la scrittura, che mi sembrano far perdere il punto più che sottolinearlo.
Quando ho visto George Floyd per terra in quel video, mi sono quasi sentita male e ho pensato: “Come si può usare tanta violenza contro un uomo immobilizzato?” E mi sembra totalmente assurdo che in ogni serie in onda nella Stati Uniti ci sia obbligatoriamente un personaggio di colore mentre nella realtà la polizia si comporta così con i neri perché sono neri.
Di che cosa stiamo parlando? Non mandiamo in onda “Via col vento” perché Mami era trattata come una donna di colore senza diritti, esattamente come nella realtà di quel periodo? E poi? Toglieremo di mezzo libri, film e serie che parlano del razzismo o dell’Olocausto perché persone di colore ed ebrei vengono torturati e uccisi? E’ così che è andata, anche se non lo mostriamo, la Storia non si cambia.
La scrittura poi, in senso ampio (libri, film, serie), non può e non deve piegarsi a questa logica del politically correct. L’unica cosa che comanda quando scrivi è la storia, tutto deve ruotare intorno a quella e non all’indice di diversità.
Ora sembra che qualsiasi storia per essere reale debba avere un personaggio di colore (qualsiasi), un gay o una lesbica (bisessuale sarebbe meglio) o con un disturbo mentale.
Nel mio romanzo non c’era niente di questo, quindi i miei personaggi erano meno reali? Io non credo proprio. Ho cercato di descrivere sensazioni universali che non conoscono razza, religione, orientamento sessuale…
Nel momento in cui pensi che devi inserirci un gay solo perché è gay o una persona di colore per garantire la diversità, categorizzi e discrimini.
L’eccesso di correttezza porta al risultato opposto. Pensiamo, invece, a come i personaggi possano essere funzionali e coerenti con la nostra storia.
Recentemente mi ha sconvolto questa cosa. Come vi ho già detto, io sono un’appassionata di serie tv. E tra quelle che adoro c’è Friends. Ho letto che una delle autrici ha orgogliosamente affermato che se Friends fosse stato girato oggi, avrebbe inserito un personaggio di colore. Perché? La storia funziona e fa ridere e affronta le sue tematiche spinose, anche se i personaggi sono tutti bianchi.
Cominciamo davvero a trattare gli altri come persone, a integrare e non a dividere, a conoscere e non a giudicare. Queste sono le cose importanti.
Il resto, onestamente, mi sembra il dito che ci indica la luna e noi stiamo tutti lì a guardarlo.
Non scrivendo del Covid. Non vi preoccupate, ora vi spiego.
Mi è capitato di vedere su alcuni gruppi di scrittori e lettori a cui sono iscritta, dei post dove le persone affermano che non leggerebbero mai un libro sul Covid, perché non vorrebbero mai rivivere questo periodo.
Lungi da me dire alle persone cosa leggere ma una cosa che posso fare è parlare agli scrittori: voi dovete scrivere del Coronavirus.
Lo so, il pubblico è sovrano ma, nel tempo, le cose cambieranno. Le persone vorranno leggere di qualcosa che hanno vissuto e i bambini che oggi hanno vissuto chiusi nelle case, inconsapevoli di ciò che stava accadendo fuori, vorranno sapere, conoscere.
Noi siamo sopravvissuti a una pandemia e siamo scrittori. Siamo la memoria delle generazioni future. Non hanno scritto delle guerre perché è triste? Non sono stati pubblicati libri sull’Olocausto perché era deprimente? Non scherziamo, ragazzi. Abbiamo l’opportunità di raccontare un’esperienza umana potente vissuta praticamente da tutto il mondo. Non abbiamo più Calvino, Sepulveda o Shakspeare per scriverne. Ci siamo noi e abbiamo il dovere morale di trasmettere la storia e la Storia.
Abbiamo già parlato di come, nel tempo, gli scrittori abbiano raccontato le epidemie e la malattia. Lo hanno fatto con ingegno, creatività, ognuno in modo diverso (perché come abbiamo già detto, la vera novità sta nel “come” si scrive, non nel “cosa”).
E poi, io credo che non si debba parlare necessariamente solo di dolore e morte quando si scrive del Covid o delle cose brutte in generale.
La vita è un pacchetto completo. Si scrive della morte per scrivere della vita, si scrive del dolore per scrivere della felicità. Siamo parte di una contorta quanto perfetta bilancia in cui tutto si completa. Sarebbe assurdo escluderne una parte. Ci saranno scrittori che ci faranno ridere e distrarre dalla vita reale. Ne abbiamo bisogno. E ci saranno quelli che ci faranno piangere e riflettere. E ne abbiamo bisogno in egual modo.
Non escludo poi che ci saranno scrittori che ci faranno ridere e piangere insieme. Io spero di riuscire a farlo, perché credo che la vita sia così. Come scrive Rilke:
“Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore. Si deve sempre andare: nessun sentire è mai troppo lontano.“
In definitiva, io vi chiedo di scrivere del Covid senza scrivere del Covid. Cercate punti di vista nuovi, modi di rielaborare questa pandemia come una parte della vita umana. E avremo una testimonianza, la vostra narrazione di questo momento che stiamo vivendo.
Scrivete!
Oggi ho visto un po’ di numeri e ho capito che siamo tanti, così ho deciso di utilizzare questo post per veicolare un messaggio importante, che spero ci aiuti a combattere la malattia.
Sarò breve, anche perché sono un po’ malaticcia anch’ io (solo un raffreddore… niente di grave).
Mai avrei creduto di vivere una situazione del genere, forse qualche volta ho pensato a una guerra per tutte le tensioni politiche ma una pandemia, in un Paese industrializzato, non mi è mai passato per la testa. Noi abbiamo la Scienza dalla nostra e io credo nella Scienza.
Ma sapete in cos’altro credo? Credo che ci siamo ritrovati a far parte della Storia (quella grande) e della storia (quella più piccola che vita di tutti).
E possiamo essere i protagonisti della nostra storia. Gli eroi. Quelli che salvano gli altri. E non dobbiamo neanche maneggiare una spada per farlo! Ci basta non uscire di casa. E salveremo la vecchietta tanto carina che vediamo ogni giorno a passeggio con il marito, quando andiamo a lavoro. Salveremo quella coppia di ragazzi che si è appena trasferita nel nostro palazzo. Salveremo quel bambino che ci saluta, seduto nel carrello del supermercato.
Salveremo il mondo forse, chi lo sa.
E ci basta stare a casa. Quindi, non uscite. Restate in casa! Salvate il nonno, la madre, il nipote, la figlia di qualcuno…
Lo so, ve l’hanno detto tutti. Ma forse non vi hanno detto quanto importante sia il vostro gesto.
Quelli che combattono in primi linea, i medici, gli infermieri, i tecnici, quello che vi assicurano il cibo, quelli che puliscono (ebbene sì, ce li scordiamo sempre ma c’è qualcuno che li pulisce quegli ospedali pieni di malati), devono stare in trincea.
Ma noi possiamo aiutarli stando a casa. Noi possiamo essere eroi!
Oggi faremo una cosa un po’ diversa, perché secondo me può aiutarvi. Analizziamo un libro, anzi una quadrilogia, che sappiamo aver avuto successo in Italia e nel Mondo: “L’amica geniale” di Elena Ferrante.
Io l’ho letto alcuni anni fa perché tutti ne parlavano e volevo capire il perché. In fondo, era davvero da parecchio che un romanzo italiano non s’imponeva sulla scena letteraria mondiale.
Questo succedeva prima della serie tv, quindi eravamo ancora un passetto indietro rispetto a dove siamo oggi.
Per i pochi che non conoscessero ancora la trama de “L’amica geniale” e i vari seguiti la storia è più o meno questa (non voglio spoilerare niente): Lenù (Elena) e Raffaella (Lila) sono due bambine nate in un rione di Napoli nel primo dopoguerra. Insieme affronteranno tutte le tappe della vita, sullo sfondo di cinquant’anni di storia italiana.
La mia opinione: i libri sono molto belli. Ho trovato il terzo “Storia di chi fugge e di chi resta” il più lento tra i tre (poteva essere più corto) ma la scrittura è impeccabile e la storia si fa leggere.
Come ha fatto a ottenere tutto questo consenso? Io ora vi dico la mia ma mi piacerebbe sentire anche la vostra opinione in merito.
La storia dell’amicizia tra le due bambine, poi ragazze e poi donne, che poteva scadere in luoghi comuni, si tinge invece di sfumature nuove, indagando nei sentimenti più profondi (anche cattivi) delle protagoniste. La Ferrante non ha paura di rendere Elena, una delle sue protagoniste, nonché voce narrante dell’intera storia, una persona un po’ antipatica, a dire il vero.
E anche Lila, che vive di estremi senza curarsi di niente e di nessuno non è sicuramente un esempio di bontà e virtù.
Eppure questo le rende vere. Vere perché Elena è insicura e invidiosa di Lila ma riesce a fare di questi sentimenti negativi la forza per uscire da una realtà a cui sembrerebbe condannata; vere perché Lila è volgare, tiene un pugno tutti con il suo umore instabile ma è coraggiosa, non ha paura neanche della malavita del rione.
E ora lui, l’altro personaggio di questi libri: “il Rione”, un’entità a sé stante in un Italia che sta affrontando tanti cambiamenti. Il Rione no. Rimane immobile, fossilizzato nelle tradizioni che l’hanno sempre governato. I ricchi comandano sui poveri. I malavitosi comandano su tutto.
Inoltre, sullo sfondo (e poi una delle protagoniste ne verrà toccata direttamente), c’è un’Italia che cambia e che cresce mentre Lenu’ e Lila cambiano e crescono. Questo parallelo è potente, si sente nella narrazione.
Ricapitolando: protagoniste reali, luoghi caratteristici, sfondo sociale interessante. Questi sono i motivi che fanno de “L’amica geniale” un successo mondiale; in più, il “mistero Ferrante” che ancora tiene banco è stata una bella mossa.
In un momento in cui tutti appaiono anche se non hanno niente da dire, lei/lui (ma secondo me è lei), decide di rimanere invisibile. Quale miglior invito a leggere le sue opere?
E poi, diciamolo, perché nella vita ma forse nell’editoria ancora di più, ci vuole c**o e forse “L’amica geniale” lo ha avuto. Stavano cercando questo tipo di libro e lui si trovava nel punto giusto al momento giusto.
Devo dire, inoltre, che anche la serie tv mi ha lasciato soddisfatta. Per quanto giovani, le protagoniste rispecchiano le caratteristiche del libro, la storia è fedele e i luoghi, cavolo, i luoghi sono proprio come me li ero immaginati nella mia testa.
E voi? Avete letto i libri? Attendo opinioni.
Stiamo entrando a far par parte della Storia. E, come tutti prima di noi, non ne siamo consapevoli. Nessuno ci crede ora ma, un giorno, qualcuno parlerà di questo 2020 e di quando la Cina e intere città di altre nazioni vennero paralizzate dal Coronavirus o, come lo definisce la scienza, dal virus Covid-19. Si ricorderanno di quelli che ci scherzavano sui social per sdrammatizzare e di chi, preso dal panico, ha saccheggiato i supermercati in cerca di viveri e di prodotti sterilizzanti.
Oltre che nei libri di storia, compariremo anche nelle storie di che le storie le racconta. Ebbene sì, noi scrittori di oggi o del futuro.
Non siamo sicuramente a quel punto ma mi vengono in mente tanti libri famosi che hanno avuto tra i protagonisti un’epidemia. Il cinema e la tv hanno saccheggiato l’argomento proprio come quelli che hanno svuotato i supermercati.
Ma torniamo alla letteratura. Sì, sto per fare il nome del romanzo tanto odiato da tutti i ragazzi delle scuole superiori: I promessi sposi.
Lo so, anch’io quando andavo a scuola non ne avevo capito la bellezza e l’unicità ma, fidatevi, se non lo avete già fatto, rileggetelo da adulti, senza essere costretti ad analizzare ogni personaggio e ogni passaggio e vi troverete tra le mani un capolavoro.
Manzoni, come molti , utilizza la peste come espediente letterario. Quando la nostra sopravvivenza è a rischio, le maschere cadono e ci riveliamo per quelli che siamo. Tutti i personaggi de “I Promessi Sposi” hanno bisogno di fare questo: confrontarsi con se stessi per scegliere la strada da percorrere. E, infatti, quando tutti i personaggi sono in pace, arriva la pioggia purificatrice che porta via i peccati del passato e la malattia.
Piccola aggiunta off topic: la scena della mamma di Cecilia che depone il corpo della figlioletta morta sul carro dei monatti è straordinaria; riesci quasi a vederla, per quanto sono vivide le parole con cui è descritta.
Un altro romanzo che usa l’epidemia come espediente narrativo è “Cecità” di Samarago. Un capolavoro terribile.
Quando l’epidemia di cecità (appunto) colpisce un parte della popolazione che viene ghettizzata perché non si conosce né la natura né i metodi di trasmissione del virus, la lotta alla sopravvivenza porta le persone a comportarsi nei modi più spregevoli.
La psiche umana debole di fronte all’epidemia, proprio come il corpo è vulnerabile alla malattia.
Per una mia sopravvivenza personale, devo credere che l’umanità non arriverebbe mai a tanto ma, se devo essere sincera, non potrei metterci la mano sul fuoco.
E l’ultimo romanzo è il “Decameron“. Qui la peste viene utilizzata per raggruppare invece di dividere. Vi ricordate quando vi dicevo che, a volte, banalmente, uno scrittore ha la necessità narrativa di mettere dei personaggi insieme in uno stesso luogo?
Boccaccio usa la peste nera per bloccare dieci giovani fuori Firenze e far sì che per passare il tempo (non c’era Netflix ai tempi), questi si raccontino quelle che poi sono diventate le famose novelle.
E ora, una mia piccola considerazione. Io ho seguito la vicenda senza farmi prendere dal panico (non ho mai ritenuto utile fasciarmi la testa prima di rompermela) ma capisco la paura e trovo che i media e soprattutto, i social media, stiano diffondendo un terrore inutile. Sono state messe in atto le misure per evitare un ulteriore contagio. Non serve fare una situazione aggiornata minuto per minuto, riprendendo anche notizie non verificate pur di dire qualcosa.
E per concludere, oggi ho aperto la mia pagina Facebook e nella home c’erano circa venti articoli sul Coronavirus ma, a me, l’occhio è cascato sul post di Save di Children che sta combattendo contro la polmonite in Africa, che uccide ogni anno non so quante persone, tra cui molti bambini.
Quindi, il mio unico appello è: non fatevi prendere dal panico. Non prendete per buono tutto quello che vi viene detto ma ragionate sulle cose con la vostra testa (ma questo sempre!). E, cavolo, lavatevi queste mani! E’ una buona norma igienica SEMPRE!
Ed eccoci qui. “Un momento di chiarezza” è stato pubblicato il 3 maggio 2018. Sembra davvero ieri eppure è già passato un anno e mezzo.
Vorrei chiarire subito che io sono una scrittrice. Lo sarò per sempre, anche se non dovessi mai pubblicare nient’altro. Ho sempre saputo che volevo scrivere e che sapevo scrivere.
Sapete, io sono sempre stata molto fortunata. Non mi sono mai dovuta ammazzare di studio per raggiungere i miei traguardi accademici. La mia scarsa capacità di concentrazione a lungo termine è sempre stata compensata da una veloce comprensione e rielaborazione dei concetti e da un ottimo utilizzo della logica. Questo mi permetteva di studiare quello che mi piaceva, di leggere quello che m’interessava, di eccellere nelle materie in cui volevo eccellere. L’italiano era una di queste e una naturale inclinazione per le materie umanistiche e per la scrittura, mi hanno facilitato tanto.
Questo è per farvi capire quanto impegno e lavoro, invece, ci sono voluti per rendere quel tre maggio una giornata speciale. E io ci ho messo tutta me stessa, sempre.
Vorrei trovare il modo migliore per raccontare questa storia, perché è questo che sto facendo ancora: raccontare una storia.
Tutti hanno pensato che io avessi un’ambizione sfrenata, che volessi vendere milioni di libri ma c’ero solo io quando arrivò la copia stampata e so che se fosse stata l’unica, non mi avrebbe commosso di meno. Ero io, era la cosa che avevo sempre fatto che diventava corporea. La realizzazione, forse l’unica che avrò in vita mia.
Ma a un tratto, in questa corsa per la pubblicazione dove tampinavo amici e non, parenti e conoscenti, ho avuto paura che il marketing stesse prevalendo sulla scrittura. E ho messo subito un freno. Ho sempre voluto avere potere decisionale sulle cose e potevo ancora averne. Ho deciso che tutti i proventi delle prevendita (per le dinamiche di pubblicazione rimando al mio post della scorsa settimana) sarebbero andati in beneficenza e così è stato; ogni centesimo è finito a Medici senza Frontiere. E non perché sono buona o ricca (scusate, qui mi scappa la risata perché penso che ero disoccupata anche ai tempi. Sono una pazza!), ma perché così doveva essere. La scrittura doveva venire prima.
Voglio essere molto sincera con voi. “Un momento di chiarezza” ha venduto 175 copie in prevendita e 18 nel periodo successivo (anzi, colgo l’occasione per ringraziare quei diciotto fortunati – oserei dire – che hanno avuto la fortuna di scoprire “Un momento di chiarezza” da soli), per un totale di 193 copie in totale. Non sono poche, sono pochissime.
Ora posso dirvi che la mia casa editrice, Bookabook, non ha affatto pubblicizzato o sostenuto il mio romanzo. E sarebbe vero. Ma hanno fatto i loro interessi e io non sono così ingenua, me l’aspettavo. Ecco, un gradino sopra l’auto pubblicazione me lo sarei meritato ma è andata così…
Posso anche dirvi che entrare nel sistema editoriale è come infilarsi nella metropolitana all’ora di punta dopo che c’è stato un guasto. E il fatto di essere un’anonima esordiente non ha aiutato. Ma è così per tutti, inutile fare vittimismo. Sapevo che sarebbe stato come sfidare un drago con uno stuzzicadenti. E questa è proprio una cosa da me; più l’impresa è folle, prima sono pronta per partire.
Una volta un grande e visionario editore mi disse: “E’ talmente folle che potrebbe funzionare”.
E ha funzionato. Ora vi spiego perché.
A volte miri a un bersaglio e ne colpisci un altro. Credo che questo avvenga perché ancora devi capire qualcosa. Per me è stato così.
Pensavo che il mio viaggio finisse con la pubblicazione e mi sbagliavo. E lo so cosa state pensando voi : “Non sei diventata famosa, ora vuoi metterci una pezza per non sentirti una fallita”. Non è così e penso che nel seguito di questo discorso alcuni si ritroveranno.
Innanzitutto, per poter promuovere da sola il mio libro dovevo credere nelle mie parole, nella mia storia, nelle mie capacità. Mi è capitato di rileggere o di sentir leggere alcune frasi di “Un momento di chiarezza” e pensare: “L’ho scritto io questo? Cavolo, sono brava!” E se voi mi conosceste come persona, sapreste che questo è sempre stato un mio difetto: credere di non essere mai abbastanza. Lì è solo lì, ho cominciato a darmi credito… Ora è un work in progress.
Inoltre, da tutti quelli che hanno letto o recensito “Un momento di chiarezza” ho ricevuto non solo parole di apprezzamento (anche da alcuni editori ma… non me la voglio menare… beh dai, un po’ sì) ma un punto di vista. E’ incredibile come le persone riescano a immedesimarsi nelle parole di qualcun altro, ognuno in qualcosa di diverso e ognuno ci vede qualcosa di diverso. Ero sorpresa, impressionata, felice di sentire cosa avevano da dire sulla mia storia, sulle mie parole.
Credevo che solo i grandi scrittori avessero questo potere e invece… Ho fatto bene il mio mestiere allora.
Già questo vi dovrebbe aver convinto a guardarvi intorno quando mirate a un bersaglio ma vi dirò di più.
Scrivere un libro vi cambia, il percorso che fate vi trasforma… in meglio. Vi obbliga a guardare dentro voi stessi e a vedere una cosa che, forse, non siete stati in grado di riconoscere fino a quel momento. Avete un forza creatrice. E qualcosa che crea è un dono.
Fatevene una ragione, ragazzi. Ci siete dentro. Siete scrittori ora.
Eccoci alla fine del vostro viaggio intergalattico. Avete superato i meteoriti e le tempeste solari ma avete visto anche un miliardo di bellissime e luminose stelle. Valeva la pena no?
A questo punto, il mio manuale diventa un racconto. Su quale pianeta sono atterrata dopo il mio fantastico viaggio intergalattico?
Facciamo un passo indietro. Avevo il mio libro finito “Un momento di chiarezza”, il deposito in Siae era registrato e avevo fatto una bella lista delle case editrici a cui volevo inviare la mia opera prima.
Ci sono tutti i tasselli, vi ritrovate? Suppongo abbiate risposto di sì, per cui procediamo.
Ora entra in scena Italo Calvino, non lo scrittore, il premio. Come molti di voi sapranno, il premio Calvino è uno dei più importanti concorsi letterari italiani. Mi accorsi che rientravo al pelo nei termini di partecipazione, così ho pagato l’iscrizione (non una cifra esigua, per correttezza), ho stampato e rilegato le due copie del manoscritto richieste e sono corsa (corsa è un parolone, il pacco pesava un po’. Per fortuna la posta è sotto casa mia!) a spedire il tutto.
Ora, tutti sanno che sono in molti a partecipare a questo concorso e io non pensavo certo di vincere ma era un primo tentativo e, inoltre, avrei ricevuto una scheda di valutazione del romanzo.
Non voglio farvi trattenere il respiro: non ho vinto il premio Calvino. Ho avuto, però, la mia scheda di valutazione: alcune delle loro considerazioni le ho trovate interessanti e condivisibili, altre mi hanno fatto pensare “ma che libro hanno letto?”
Ho pianto per due giorni, forse tre. Lo so, ho detto che non speravo di vincere ma la delusione c’è sempre (forse, dentro di me, speravo di finire almeno nei menzionati).
Devo ammettere che in questo percorso che mi ha fatto arrivare alla pubblicazione ci sono state tante lacrime e tanti momenti di sconforto. Se avessi avuto un euro per ognuno di loro, non dovrei più cercare lavoro.
Non mi sono, comunque, persa d’animo. Spesso, quando parlo di questo periodo dico di aver avuto “una perseveranza che rasentava la follia”.
Un sabato mi sono trascinata in una copisteria dove ho fatto stampare e rilegare quindici manoscritti (anche qui, costo non esiguo) e ho cominciato il mio ciclo “domeniche d’autore”. Di fatto scrivevo lettere di presentazione, cercavo indirizzi e imbustavo (buste grandi, gialle).
Il giorno dopo mi recavo con il mio bel sacchettone a spedire tutte le mie buste, facendo impazzire la povera impiegata delle poste. Nel mentre, facevo lo stesso anche con le case editrici che volevano l’invio digitale.
Se penso che molti di quei bustoni e di quelle mail forse non sono mai state aperte… Inutile rammaricarsi ora.
Passarono tanti mesi senza nessuna risposta, troppi per la mia impazienza da “cavolo, e pubblicatelo!” Dopo un po’ ho cercato qualcosa che potesse distrarmi, mi sono iscritta a un corso di recitazione, ho ricominciato a leggere seriamente, frequentavo eventi e presentazioni.
E me lo ricordo bene il giorno che ha cambiato tutto. Ero da sola, al Wired Festival, ai giardini Indro Montanelli. Ero andata perché avevo sentito che questa nuova casa editrice, Bookabook, avrebbe tenuto un incontro lì.
In pratica, Bookabook funziona così: tu spedisci il tuo libro per una prima valutazione. Se l’esito è positivo, entro quindici giorni ti viene comunicato il passaggio alla seconda fase di selezione. Dopo altri quindici giorni, saprai se il tuo libro è idoneo alla pubblicazione oppure no.Ma la parte complicata arriva dopo; se vieni ritenuto idoneo, procederanno alla pubblicazione del tuo libro, se e solo se, sarai riuscito a vendere in anteprima un numero di copie da loro stabilito (quando l’ho fatto io erano centocinquanta). Se ci riesci, il tuo libro verrà revisionato, impaginato, munito di copertina e venduto cartaceo o e-book sul loro sito, sui principali portali online e nelle librerie fisiche (la modalità di quest’ultima dipende, però, dal raggiungimento di un ulteriore numero di vendite). Per informazioni più dettagliate, potete scrivermi a info@nonprendeteappunti.it.
Nei tempi previsti, arrivò la lieta novella: il mio libro era stato scelto. Evviva! Ho pianto di nuovo, di gioia stavolta.
Vendere centocinquanta copie di un libro di cui c’erano solo una ventina di pagine online non era, però, così semplice e lo sapevo…
Ma diamine! Mia la storia, mio il finale. Non avrei provato a vendere centocinquanta copie, avrei venduto centocinquanta copie. Così come non avevo provato a scrivere un libro, avevo scritto un libro. Il mio romanzo avrebbe visto la luce (adoro queste metafore)!
E sono partita come una schiacciasassi, vedevo solo l’obiettivo. Dovevo impegnarmi ancora per raggiungerlo.
Non vi posso spiegare cosa ho provato il giorno che l’ho raggiunto. Vi posso raccontare però la storiella assurda (non poteva essere altrimenti, trattandosi di me) che c’è dietro.
Per tutta una serie di coincidenze, sapevo che ero vicina al traguardo ma non immaginavo che la Grande Vittoria si sarebbe materializzata nei minuti successivi. Sono andata a farmi una doccia ma, anche sotto l’acqua, sentivo il cellulare che continuava a squillare per i messaggi e le notifiche dei social.
Sono uscita dalla doccia, mi sono asciugata in fretta in furia e sono corsa (stavolta davvero!) a prendere il cellulare. Ed era lì, quel numero che avevo tanto sperato di vedere scritto. CENTOCINQUANTA.
E mi sembrava di essere Dario Fo che vinceva il Nobel con la macchina che accostava per comunicarglielo. Tutti lo sapevano, tranne me. Assurdo no? Assurdamente bello.
Piansi un’ultima volta. Il pianto migliore della mia vita.