Prima di partire per le tanto meritate vacanze, voglio lasciarvi un ultimo ma importantissimo consiglio di scrittura: osate!
Nella scrittura non dovete essere educati, politicamente corretti, buoni, cordiali. Dovete essere solo veri. E non sarete mai veri come quando scrivete.
Non abbiate paura e non pensate mai che sia troppo. Siate sinceri fino in fondo, non uscirete da nessun seminato. Non c’è un seminato.
Mark Twain scriveva:
Siate coraggiosi nello scrivere, dimenticate quello che vi hanno insegnato per vivere nella società civile o per ottenere un posto di lavoro.
Scrivere è il luogo dove siamo liberi.
E allora, mollate gli ormeggi e navigate lontano. Saltate!
Probabilmente l’avrete già sentito da qualche parte, soprattutto se scrivete da un po’ di tempo ma “l’atto di ricordare cambia il ricordo stesso“.
Ve ne sarete accorti; spesso raccontiamo lo stesso evento ma con dettagli diversi, a volte addirittura contrastanti. Questo perché la nostra memoria, soprattutto con il passare del tempo, tende a sfocare lo sfondo per concentrarsi sugli eventi principali. Quello che raccontiamo o che scriviamo è la nostra rielaborazione di un particolare ricordo.
Ciò che, invece, rimane stampato nella nostra mente è la sensazione che provavamo in quel determinato momento e questo influisce anche sulla selezione dei dettagli che la nostra memoria si porta dietro.
Per questo oggi voglio fare una cosa diversa, darvi un esercizio pratico, perché va bene la teoria ma, di fatto, uno scrittore deve scrivere.
Il modo in cui rielaboriamo ci rende unici ed è questo che vorrei che faceste: pensate a un momento della vostra infanzia che vi ha dato un’emozione (gioia, dolore, rabbia, solitudine, felicità…) e scriveteci un racconto. Concentratevi su ciò che provavate e non sugli eventi.
Questo è il racconto che ho scritto io quando mi è stata chiesta la stessa cosa ed è anche la prima cosa scritta da me che sia mai stata pubblicata (dalla rivista letteraria Paginauno). E’ liberamente tratto da un ricordo reale della mia infanzia.
NEL PAESE DEI BAMBINI
Sembravano essere lì da sempre e forse era proprio così; messi lì apposta come statuine di un presepe per dare anima a quell’insieme di palazzi.
Era ormai quella disomogenea combriccola di ragazzini a dare orari, suoni e colori all’intero del quartiere, come il motore che alimenta la macchina.
Cominciavano a comparire un po’ alla volta nel cortile già al mattino, ora che era estate, con i loro calzoncini corti e le canotte colorate; si ritiravano nella tana per pranzare o cenare e poi eccoli di nuovo lì, senza scopo né noia, a gironzolare tutto il pomeriggio o seduti a parlare sulle panchine fino a tarda sera.
In quell’afosa giornata di luglio si stavano tirando la palla nello spiazzo davanti alla portineria; l’asfalto era piegato dal calore intenso e i vestiti rimanevano appiccicati al corpo come attratti da una calamita.
Eppure, la piccola comitiva non sembrava risentire dell’infernale temperatura di mezzogiorno. In fondo si sa: nel paese dei bambini non è mai né troppo caldo né troppo freddo!
Valentina, la più alta e scaltra del gruppo, si lanciò per afferrare la palla lanciata malamente da Mattia.
“Ma che si fa, non si va a mangiare?” chiese Sicilia, soprannominato così per la provenienza geografica.
Si era trasferito a Milano solo da pochi mesi e da allora era stato ribattezzato da Laura con il nome della terra natia perché nessuno riusciva mai a ricordarsi quello vero; avevano ritenuto più facile presentarlo come “Lui è Sicilia, per gli amici Sici!”
Impossibile da dimenticare!
“Aspettiamo che ci chiamino!” rispose Laura.
Sici fece una smorfia di disappunto “Speriamo presto allora, mia madre oggi ha fatto la pasta con le sarde!”
“Che schifo!” sbottò Marta.
Marta era piuttosto bassina per la sua età e con qualche chilo di troppo, ma era molto agile e tra loro era l’unica che riuscisse a risalire lo scivolo al contrario, motivo di indiscusso vanto.
“Cosa sono le sarde?” chiese Mattia perplesso.
Sici scrollò le spalle. “Una cosa buona che si mette nella pasta…non lo so esattamente, mia madre dice cittu e mangia!”
Tutti presero per buona la definizione della sarda della madre di Sici.
Marta tirò la palla a Mattia con tutta la potenza di cui era capace ma lui, distratto da uno stormo di uccelli che si levava in quel momento, la fermò con la faccia.
Laura si avvicinò subito al fratello minore: “Oh Matti, ti sei fatto male?” chiese.
“Mmmm…” mugugnò Mattia tenendosi la guancia con una mano; Laura gliela scostò delicatamente e lo vide arrossarsi di colpo e gonfiarsi leggermente.
“No dai non è niente, è la botta, ora si sgonfia! Cavolo Matti, stai attento, adesso se mamma ti vede con quella faccia sai quanto mi rompe! Dai Sici ricominciamo da te!”
Sici riprese la palla e la lanciò in aria senza direzione; quella partì come attaccata ad un razzo e si andò ad appoggiare con un sonoro rimbalzo proprio sul tetto della portineria.
“Allora tu sei nato scemo Sici! Ora ci vai tu a bussare a Carmelo!” sentenziò Valentina.
“No dai Vale…quello mi fa paura!”
E, come evocato, sulla soglia apparve Carmelo, il portinaio, con la sua camicia bianca sudaticcia a coprire la grossa pancia, la testa calva al centro e i baffoni da narcotrafficante colombiano.
“Che avete combinato?” disse in un italiano sgrammaticato.
“Carmelo, ci è finita la palla sul tetto…non ce la puoi prendere?” chiese Laura.
Carmelo scosse la testa. “No è troppo alto, non ci arrivo!”
“Ma con la scala ci arrivi… se vuoi ci vado io!” ribatté Marta.
“No, non si può!” Carmelo si pronunciò ponendo fine alla discussione.
Aveva quello sguardo che evitava ogni tipo di obiezione.
Da tempo ormai tutti avevano capito come funzionava la giurisdizione condominiale: per qualche strana ragione tutto ciò che finiva all’interno del perimetro della portineria diventava automaticamente di proprietà di Carmelo.
In quale antica consuetudine affondasse le radici questa legge a tutt’oggi risulta un mistero!
“Bella Sici davvero! Altra palla persa per sempre!” si complimentò ironicamente Valentina.
“Beh però era un bel tiro…dieci punti almeno!”
“Peccato che non stavamo giocando a punti! E ora che si fa?”
“Campana?” propose non troppo convinta Marta.
“Ma l’abbiamo già fatta stamattina! Lupo mangia frutta?” ipotizzò Laura.
“No… ho già fame così!” borbottò Sici.
“Che palle! Mangiati uno di quei fiori della Madonna…sono zuccherini lo sai, almeno ti bloccano la fame per un po’!” intervenne Mattia.
“Dai facciamo un due tre stella allora? Andiamo sotto il mio portico!” tagliò corto Laura.
Appena arrivati videro una delle loro mamme con ancora le ciabatte addosso e l’aria agguerrita che usciva dal portone.
“Laura…Mattia…è mezz’ora che vi chiamo dal balcone! Dove eravate? E’ pronto da mangiare! Ma Matti” disse notando il volto del ragazzino arrossato “che ti è successo in faccia? Sei viola!”
“Niente mà, è solo un po’ rosso, gli è arrivata una palla in faccia mentre giocavamo!” rispose Laura per il fratello senza menzionare l’autrice del tiro maldestro.
“E tu dov’eri?” chiese la madre rivolta alla bambina.
Laura roteò gli occhi verso l’alto senza emettere fiato, da tempo sapeva che non c’era una risposta giusta a quel genere di domande.
Tentò di cambiare argomento: “Mamma, stamattina Gennaro ci ha buttato giù di nuovo le bistecche! Ci stava quasi beccando!”
“Quell’uomo è malato Laura…con quello che sta la carne al chilo…” disse tastando delicatamente la guancia del figlio.
“Ma mamma…”
“Sì sì” disse la madre dopo essersi accertata che il danno fosse solo superficiale “ magari se voi la smetteste di fare casino sotto la sua finestra la sera…comunque lo dirò a Carmelo…vediamo! Che fate salite a mangiare o no?”
“Io non ho fame” disse Laura.
“Io vengo dopo mà!” si associò Mattia.
“Va bene…” disse la madre riaprendo il portone e mentre andava via “e tu Matti…tieni la faccia lontana dalle palle!”
Il gruppetto sghignazzò.
La madre scosse la testa rendendosi conto in ritardo del doppio senso della sua frase e poi, rassegnata, si trascinò con le sue pantofole fino all’ascensore.
I ragazzi rimasero lì sotto e cominciarono a giocare.
Laura contava: “Uuunnnn….duuue…tre.. stella!”
E si voltò velocemente per percepire un movimento ma rimase colpita dall’espressione di Sici; sembrava stesse soffiando, strabuzzava gli occhi ed era tutto rosso.
“Sici sei fuori!” disse.
“Ma non mi stavo muovendo!” piagnucolò il bambino.
“Si ma con quella faccia da scemo non puoi giocare, mi distrai! Non vedo gli altri!”
“Uffa…lo sapevo che facevo meglio ad andare a mangiare!”
Laura si girò di nuovo e ricominciò a contare…
“Uuuuuuno….du..”
All’improvviso si sentì il rumore di qualcosa che sbatteva con violenza contro il muro dove Laura era appoggiata a contare.
La bambina si voltò di colpo e cercò con gli occhi l’oggetto che aveva provocato l’urto.
Vide qualcosa per terra e si avvicinò; in un secondo anche tutti gli altri si ritrovarono intorno all’oggetto non identificato.
“Gennaro ci ha tirato qualcosa?” chiese Sici spaventato.
“Dall’ottavo piano dell’altro palazzo, non ci arriva qui!” rispose Valentina.
Laura guardò con attenzione: “E’ un uccellino!”
“E’ vivo?” chiese Marta.
Laura lo sfiorò appena con il mignolo e l’uccellino si rimise sulle zampe…fece due passi e tentò di volare ma cadde di nuovo.
“Credo che abbia un’ala spezzata!” affermò Laura.
“Poverino!” disse Mattia “ Laura fai qualcosa, aiutalo!”
Laura non aveva la minima idea di come fare ad aiutare la povera bestiola, stava per annunciarlo al gruppo quando incrociò lo sguardo del fratello che sembrava sul punto di piangere.
“Dai Matti” disse cercando di ragionare in fretta “vai nel garage…prendi una scatola da scarpe e svuotala.. e prendi anche uno dei quei panni che mamma tiene lì per pulire ma non uno sporco mi raccomando!”
Mattia fece sì con la testa e corse verso le scale del box contento di essere utile a quel “piano di salvataggio”.
“Laura ma come fai a prenderlo? Se si muove….” Il dubbio di Valentina era condiviso da tutti gli atri.
“Provo!” Laura pregò che il loro piccolo amico non si spaventasse e che non la beccasse per difendersi dal pericolo.
Si avvicinò piano e allungò la mano lentamente per non innervosire il pennuto, ma questi si lasciò completamente andare al tocco delicato delle dita della ragazzina.
Si adagiò sul palmo delle sue mani senza mostrare alcun segno di combattività.
Laura guardò i piccoli occhi dell’animale che giaceva come se dormisse e realizzò la verità; era probabile che l’unica cosa che potessero fare era allungare la sua agonia.
In quel momento giunse Mattia trafelato per la corsa con in mano quello che lei gli aveva chiesto.
“Ecco!” disse madido di sudore e soddisfatto.
Laura lo guardò e non ebbe il coraggio. “Vieni Matti…metti il panno nella scatola e poi avvicinamela!”
Quando il bambino ebbe fatto, Laura adagiò l’uccellino che si lasciò andare nel cartone con la stessa arrendevolezza con cui si era lasciato prendere la prima volta.
“Ora aspettiamo che si riprenda ok?!” disse Laura rivolta agli altri.
Tutti annuirono, solo Sici mugugnò: “Sì va bene… ma per quanto? La pasta con le sarde…”
Tutti lo guardarono male e lui abbassò la testa, deluso dalla mancanza di comprensione e di appetito dei suoi amici.
“Forse dovremmo dargli un nome!” disse Marta.
“Mazzinga!” propose deciso Sici.
Altro sguardo di disapprovazione. “Ma secondo te ha la faccia da Mazzinga?” lo incalzò Valentina.
Sici alzò le spalle, rassegnato.
“Io pensavo a Cipì…come l’uccellino della storia!” propose Laura.
“Siiiiii!” approvò Mattia ricordandosi di colpo di cosa parlasse la sorella.
Rimasero lì altre due ore seduti in cerchio a giocare a carte e a “nomi, cose, città” con la scatola al centro per controllare il povero uccello, che non dava segni di ripresa.
Poi si spostarono verso il centro del cortile dove c’erano lo scivolo e le altalene.
Laura pensò attentamente a dove potessero lasciare la scatola per tenerla d’occhio ma senza fissarla, voleva che Mattia si distraesse.
La mise tra due cespugli sopra l’erba di modo che stesse all’ombra e raggiunse gli altri che si erano fiondati sui giochi.
Passavano da un divertimento all’altro con quella frenesia che solo l’infanzia possiede.
Ad un tratto si sentì la madre di Sici che lo chiamava a gran voce e il bambino, così contento che finalmente la sua pasta con le sarde lo reclamasse, corse d’istinto verso il balcone per avere conferma che, finalmente, era arrivato il momento di riempire lo stomaco.
Nella foga della corsa non si accorse che la scatola giaceva ancora all’ombra dei cespugli in direzione del palazzo, così che l’impatto con il suo piede fu inevitabile.
Ora, il povero uccellino era riverso sull’erba immobile.
Sici si portò la mano alla bocca e guardò ciò che aveva combinato con un espressione incredula.
Tutti si avvicinarono alla bestiola e Laura provò a toccarlo delicatamente ma.. nessun segnale di vita.
“Ma…è morto?” chiese Marta.
“Credo proprio di sì” disse Laura guardando Mattia ma intendeva che non c’erano dubbi.
“Sici…lo hai ammazzato…sei proprio un deficiente!” sbottò Valentina.
“Ma io…io ….non volevo…non l’ho visto!” si difese il bambino con le lacrime agli occhi.
Laura continuava a guardare il fratello che fissava l’uccellino con aria perplessa.
“Ma…mica per sempre?” la domanda sembrava frutto di una profonda riflessione.
“Cosa per sempre?” chiese Laura.
“Non è mica morto per sempre vero?”
Laura sospirò cosciente della bugia che stava per dire: “No…magari un giorno…” rispose.
Mattia sembrava soddisfatto della risposta, quasi sollevato.
Laura disse: “Dai andatevi a prendere un gelato…io vi raggiungo! Tieni i soldi Matti!”
Tutti si mossero tranne Sici, che rimaneva impalato a fissare la scena: “Dai Sici…vai a mangiare che la pasta si raffredda…non ti preoccupare…lo sappiamo che non l’hai fatto apposta!” lo rincuorò la ragazzina.
Ancora non sapeva che, probabilmente, la sua maldestra goffaggine aveva compiuto un involontario atto di misericordia verso un esserino sofferente.
Ora c’era solo Laura, lei era la più grande del gruppo, era sempre stata intelligente, era lei a decidere nel gruppo quando c’era incertezza, era lei a badare a tutti, oltre che a sé stessa.
Prese il piccolo pennuto ormai senza vita, lo portò all’albero che stava al di là del cortile dove c’era il vecchio cancello rotto, scavò una buca abbastanza profonda con le mani e ve lo depose dentro.
Poi cercò un sasso appuntito e incise sul tronco: “CIPI’ 16-07-1990”.
Rimase un attimo a guardare quella tomba improvvisata; pensò che oggi faceva davvero caldo.
In fondo, si sa, nel paese dei bambini non fa mai né troppo caldo né troppo freddo e non esiste la morte.
FINE
Ora aspetto i vostri racconti.
Non c’è due senza tre e, se avete contato bene, manca solo lui all’appello: il self publishing. E’ tanto discusso, amato e odiato che, qualunque cosa dirò andrò contro qualcuno ma fa parte dell’essere sinceri. Partiamo dal presupposto che è un metodo relativamente “nuovo” per pubblicare e come tale può e continua a migliorare.
E, sinceramente, io non mi sento né di raccomandarvelo né di sconsigliarvelo a prescindere.
Se siete dei lettori fedeli, vi ricorderete che, all’inizio di questa fantastica guida intergalattica per scrittori emergenti, vi ho detto che uno scrittore deve prendere tante decisioni; non mi riferivo solo alla trama, alla copertina o alle cose da tagliare in fase di revisione. Significa anche decidere cosa fare del tuo libro una volta che è bello finito e impacchettato.
Per cui vi elencherò le ragioni per cui ho scelto di non autopubblicarmi:
- era il mio primo romanzo, avevo un po’ paura di toppare, volevo avere delle opinioni da un professionista, un editor insomma;
- tu sei Nessuno. Esatto, non ve la prendete. Un esordiente con il suo primo libro in mano è il Sig. Nessuno in persona. Quindi io, Sig. Nessuno, pubblico un libro, passato solo dal mio giudizio (e credetemi, c’è tanta gente che non sa scrivere che pensa di saperlo fare), nel mare magnum di Internet… sono praticamente una barchetta alla deriva. La quantità di fattore C che ti serve per essere trovato da un numero di lettori decente tra le milioni di autopubblicazioni che circolano, dovrebbe moltiplicarsi in maniera esponenziale! Essere trovati è praticamente impossibile senza qualcuno che punti il dito sul tuo libro. E questo ve lo confermo, perché negli ultimi mesi, sto scrivendo su una famosa piattaforma sotto pseudonimo e, ragazzi, non mi si fila nessuno. Per fortuna io lo stavo facendo un po’ per gioco, un po’ per provocazione. Vi dico solo che ragazzini che non sanno usare il verbo avere, su questa piattaforma scoppiano di follower. E la qualità? Traetene voi le conclusioni. Vi dico solo che, in questa quarantena, ho letto molti più post sui social di quanti avrei dovuto e mi sono profondamente avvilita. Neanche le basi dell’italiano…
- volevo essere “scelta”. Vanità? Egocentrismo? Sì, probabile! Ma anche quel dubbio che penso serpeggi in tutte le menti umili: “e se avessi scritto una cagata pazzesca”?
- “Un momento di chiarezza” è una storia particolare, non sapevo quanto le persone l’avrebbero ben accolta. La trama di fondo è, di fatto, banale. Devi leggerlo per scoprire le sue particolarità;
- non volevo vendere il mio libro come una cassa di frutta;
- ultimo ma non ultimissimo: le copertine dei libri autopubblicati sono veramente brutte! O hai la fortuna di avere un amico o un parente che bazzicano nel disegno o rischi di trovarti una copertina improponibile. E come abbiamo già detto, la copertina fa.
Questa è stata la mia scelta, quello che credevo essere meglio per il mio libro. Ora voi dovete fare quello che è meglio per il vostro. E non flagellatevi se le cose non vanno come avevate previsto.
Sappiate che, di fatto, l’autopubblicazione è una scommessa su voi stessi, come scrittori ma anche come “venditori”del proprio libro. Quindi, se decidete per questa opzione, preparatevi ad accontentarvi di una piccola fetta di pubblico, composta di amici e parenti o siate sfacciati.
Provateci davvero, con impegno! Rischiate!
L’altro giorno ho trovato un articolo con questo titolo e ho pensato: “Io ho scritto un libro, quindi saprò dare cinque consigli per farlo fare anche agli altri”. Ammetto, però, di non averlo letto, non volevo farmi influenzare.
E devo anche ammettere che non mi piacciono le teorie che si basano su un numero di mosse predefinite per fare qualcosa. Avete mai letto quegli articoli dal titolo “Dieci cose per farlo innamorare pazzamente”? Insomma, il titolo suona ridicolo quanto l’articolo, perché per alcune cose non c’è una serie di regole che ti assicurano che raggiungerai l’obiettivo. Come l’amore, come la vita secondo me… ma soprattutto, come la scrittura.
Non c’è una ricetta da seguire con gli ingredienti e le dosi, è un po’ tutto un “quanto basta”. Come sostenitrice della teoria del caos, era destino che non diventassi mai una food blogger.
Ma nulla mi vieta di tentarci, a patto che consideriate le cose che vi scriverò come consigli perché, alla fine, ho visto che di tutti i manuali che ho letto, delle lezioni che ho fatto, ho creduto davvero solo a chi mi dava spunti di riflessione basati sulla propria esperienza e non a quelli che mi snocciolavano regole come se fossero scritte sulla Bibbia della scrittura.
Pronti? Cominciamo!
- Siate ricettivi. E’ vero, scrivere è un mestiere che ti isola, che si fa da soli ma, anche se lo ignori, il mondo esterno esiste e può essere fonte di incredibili spunti. La realtà è un grande contenitore di Lego, potete scegliere quelli che v’ispirano e combinarli come più vi aggradano. Guardate le cose un po’ come i bambini, senza pregiudizi.
- Trovate la vostra voce. Sì, proprio quella che vi fa paura ascoltare. Non cercate di essere qualcosa che pensiate sia giusto. Siamo talmente abituati a pensare che dobbiamo essere tutti uguali per sopravvivere in questa società che abbiamo dimenticato che siamo tutti diversi. E lo siamo in tante piccole cose. Non dobbiamo essere un movimento per essere diversi, magari è solo che non ci piace il sushi. Ok, ora lo dico: io odio il sushi.
- Mettetevi a nudo. Non serve scrivere di se stessi per essere onesti fino in fondo. Uno scrittore è sempre un po’ “nudo” nel suo libro. Non abbiate paura di mettere qualcosa sul piatto, altrimenti perderete la scommessa in partenza.
- Leggete quello che vi piace. Non sarò ipocrita, ci sono tanti bellissimi testi classici che farebbero un gran bene alla vostra scrittura ma leggere deve essere piacevole, non un’imposizione. Scegliete, quindi, quello che vi passare un po’ di tempo nel mondo che qualcun altro ha scritto. Vi verrà anche più voglia di scriverne uno tutto vostro.
- SCRIVETE! Nonostante tutte le regole, le letture, la documentazione, la preparazione, l’unica cosa davvero importante per scrivere un libro è scriverlo. E no, non ho scoperto l’acqua calda ma, da persona che ha scritto un libro, vi posso dire che non è semplice continuare, soprattutto quando sei a pagina tre e ti sembra di dover scrivere ancora un migliaio di cose o quando rileggi e pensi che alcune cose non funzionino. Credetemi, come sempre, le ho passate tutte e, alla fine, il mio libro ora esiste, è pubblicato, qualcuno di voi lo ha letto e ad alcuni è anche piaciuto. Quindi, scrivete, scrivete, scrivete.
Vi posso assicurare che ci saranno giorni brutti. Molto brutti. Ci sono, nella vita di tutti. Ma per voi, cari colleghi scrittori, saranno ancora peggio. E non perché abbiamo l’oligopolio delle emozioni ma perché abbiamo una dannata ostinazione a cercare di capire. Dobbiamo meticolosamente passare al vaglio ciò che proviamo, capirne le ragioni e ovviamente chiederci fino all’ossessione se sia giusto che stia capitando a noi.
Ma, come mi disse una mia insegnante alle superiori, alcune cose sono così e basta e vanno accettate. Perché c’è un momento in cui ti crolla tutto addosso e ti sembra che possa solo peggiorare. E questo è il momento in cui dovete scrivere.
Non dico che uno scrittore felice non possa scrivere qualcosa di buono ma uno scrittore a cui le cose non vanno bene, scrive “grandi cose”. Accetto la diatriba che potrebbe scatenare questa affermazione. Ma i grandi scrittori del passato ci hanno lasciato una grande lezione: nella sofferenza c’è creatività.
Per vari motivi, questa è la situazione in cui mi trovo ora. Per cui, eccola qua la scintilla creativa. E’ora di ricominciare a scrivere. Solo che ora devo trovare il modo d’incanalare queste sensazioni in una storia, perché voglio scrivere un altro libro, non un altro diario.
Per fare questo, ho tentato di rientrare in contatto con persone che scrivono e ho notato una cosa che mi ha lasciato perplessa: c’è una tendenza generale a sottolineare l’importanza delle emozioni nei corsi di scrittura. Così nascono incontri interdisciplinari tra il coaching e la scrittura creativa. E mi chiedo: ma tutta la scrittura non è un confrontarsi con le proprie emozioni? Non esiste una scrittura di qualità (o che prova a esserlo) senza questo processo.
Quando ho scritto il primo capitolo di “Un momento di chiarezza”, non sapevo che fosse l’inizio di qualcosa. Mi sono svegliata una domenica mattina più stanca di come ero andata a letto; soffrivo per amore, per il lavoro, per la prospettiva che non sarei mai riuscita a finire uno dei miei tremila romanzi incompiuti. Volevo creare un alter ego a cui andasse tutto male ma che fosse talmente indurita dalla vita da sbattersene di tutto. La nascita di Daisy è imputabile al mio egoistico desiderio di scaricarle addosso parte (se non tutta, non mi offendevo!) della mia sofferenza.
Io non avevo fatto nessun percorso per capirmi meglio, per esprimere e accettare le mie emozioni ecc… Ho scritto e, visto il mio stato d’animo dei tempi, il primo capitolo non si poteva svolgere durante il carnevale di Rio de Janiero.
Però io avevo l’ironia, il sarcasmo. Beato sarcasmo che tutto protegge e rende ridicolo! Vedere il lato comico di quello che scrivevo me lo faceva vedere anche nella vita reale. Ed è così che la scrittura mi ha salvato (quella volta ma non è stata l’unica).
Il mio consiglio è: se vedete la luce davanti al tunnel andatele incontro, forse è l’inizio di qualcosa, forse no. Non chiedetevelo adesso. Dopo sarà programmazione e revisione e tutto quello di cui abbiamo parlato in questo manuale. Ma la scintilla, lasciamola libera e vediamo dove ci porta.
Ed eccoci qui. “Un momento di chiarezza” è stato pubblicato il 3 maggio 2018. Sembra davvero ieri eppure è già passato un anno e mezzo.
Vorrei chiarire subito che io sono una scrittrice. Lo sarò per sempre, anche se non dovessi mai pubblicare nient’altro. Ho sempre saputo che volevo scrivere e che sapevo scrivere.
Sapete, io sono sempre stata molto fortunata. Non mi sono mai dovuta ammazzare di studio per raggiungere i miei traguardi accademici. La mia scarsa capacità di concentrazione a lungo termine è sempre stata compensata da una veloce comprensione e rielaborazione dei concetti e da un ottimo utilizzo della logica. Questo mi permetteva di studiare quello che mi piaceva, di leggere quello che m’interessava, di eccellere nelle materie in cui volevo eccellere. L’italiano era una di queste e una naturale inclinazione per le materie umanistiche e per la scrittura, mi hanno facilitato tanto.
Questo è per farvi capire quanto impegno e lavoro, invece, ci sono voluti per rendere quel tre maggio una giornata speciale. E io ci ho messo tutta me stessa, sempre.
Vorrei trovare il modo migliore per raccontare questa storia, perché è questo che sto facendo ancora: raccontare una storia.
Tutti hanno pensato che io avessi un’ambizione sfrenata, che volessi vendere milioni di libri ma c’ero solo io quando arrivò la copia stampata e so che se fosse stata l’unica, non mi avrebbe commosso di meno. Ero io, era la cosa che avevo sempre fatto che diventava corporea. La realizzazione, forse l’unica che avrò in vita mia.
Ma a un tratto, in questa corsa per la pubblicazione dove tampinavo amici e non, parenti e conoscenti, ho avuto paura che il marketing stesse prevalendo sulla scrittura. E ho messo subito un freno. Ho sempre voluto avere potere decisionale sulle cose e potevo ancora averne. Ho deciso che tutti i proventi delle prevendita (per le dinamiche di pubblicazione rimando al mio post della scorsa settimana) sarebbero andati in beneficenza e così è stato; ogni centesimo è finito a Medici senza Frontiere. E non perché sono buona o ricca (scusate, qui mi scappa la risata perché penso che ero disoccupata anche ai tempi. Sono una pazza!), ma perché così doveva essere. La scrittura doveva venire prima.
Voglio essere molto sincera con voi. “Un momento di chiarezza” ha venduto 175 copie in prevendita e 18 nel periodo successivo (anzi, colgo l’occasione per ringraziare quei diciotto fortunati – oserei dire – che hanno avuto la fortuna di scoprire “Un momento di chiarezza” da soli), per un totale di 193 copie in totale. Non sono poche, sono pochissime.
Ora posso dirvi che la mia casa editrice, Bookabook, non ha affatto pubblicizzato o sostenuto il mio romanzo. E sarebbe vero. Ma hanno fatto i loro interessi e io non sono così ingenua, me l’aspettavo. Ecco, un gradino sopra l’auto pubblicazione me lo sarei meritato ma è andata così…
Posso anche dirvi che entrare nel sistema editoriale è come infilarsi nella metropolitana all’ora di punta dopo che c’è stato un guasto. E il fatto di essere un’anonima esordiente non ha aiutato. Ma è così per tutti, inutile fare vittimismo. Sapevo che sarebbe stato come sfidare un drago con uno stuzzicadenti. E questa è proprio una cosa da me; più l’impresa è folle, prima sono pronta per partire.
Una volta un grande e visionario editore mi disse: “E’ talmente folle che potrebbe funzionare”.
E ha funzionato. Ora vi spiego perché.
A volte miri a un bersaglio e ne colpisci un altro. Credo che questo avvenga perché ancora devi capire qualcosa. Per me è stato così.
Pensavo che il mio viaggio finisse con la pubblicazione e mi sbagliavo. E lo so cosa state pensando voi : “Non sei diventata famosa, ora vuoi metterci una pezza per non sentirti una fallita”. Non è così e penso che nel seguito di questo discorso alcuni si ritroveranno.
Innanzitutto, per poter promuovere da sola il mio libro dovevo credere nelle mie parole, nella mia storia, nelle mie capacità. Mi è capitato di rileggere o di sentir leggere alcune frasi di “Un momento di chiarezza” e pensare: “L’ho scritto io questo? Cavolo, sono brava!” E se voi mi conosceste come persona, sapreste che questo è sempre stato un mio difetto: credere di non essere mai abbastanza. Lì è solo lì, ho cominciato a darmi credito… Ora è un work in progress.
Inoltre, da tutti quelli che hanno letto o recensito “Un momento di chiarezza” ho ricevuto non solo parole di apprezzamento (anche da alcuni editori ma… non me la voglio menare… beh dai, un po’ sì) ma un punto di vista. E’ incredibile come le persone riescano a immedesimarsi nelle parole di qualcun altro, ognuno in qualcosa di diverso e ognuno ci vede qualcosa di diverso. Ero sorpresa, impressionata, felice di sentire cosa avevano da dire sulla mia storia, sulle mie parole.
Credevo che solo i grandi scrittori avessero questo potere e invece… Ho fatto bene il mio mestiere allora.
Già questo vi dovrebbe aver convinto a guardarvi intorno quando mirate a un bersaglio ma vi dirò di più.
Scrivere un libro vi cambia, il percorso che fate vi trasforma… in meglio. Vi obbliga a guardare dentro voi stessi e a vedere una cosa che, forse, non siete stati in grado di riconoscere fino a quel momento. Avete un forza creatrice. E qualcosa che crea è un dono.
Fatevene una ragione, ragazzi. Ci siete dentro. Siete scrittori ora.
Eccoci alla fine del vostro viaggio intergalattico. Avete superato i meteoriti e le tempeste solari ma avete visto anche un miliardo di bellissime e luminose stelle. Valeva la pena no?
Quando il vostro libro sarà pronto, lo saprete. Non posso dirvi altro perché, in realtà, nessuno sa quale sia la cottura giusta. Come la pasta, dovete assaggiarla. E con assaggiarla, intendo rileggerlo (ad alta voce sarebbe meglio) un’ultima volta dopo i cambiamenti, le revisioni e la ricerca per stanare ogni refuso.
“Ok, ora il libro è pronto, quello che ho scritto mi piace tanto o abbastanza (dipende da quanto siete critici con voi stessi) ma ora? A chi lo mando?”
Vi state ponendo la proverbiale domanda da un milione di dollari (metaforici eh… che con la scrittura non li vedrete mai tutti quei soldi!) ed è il giusto quesito da porsi.
Innanzitutto, decidete se volete far leggere la vostra opera prima ad un parente o a un amico o un ristretto gruppo di persone. Io non l’ho fatto, pensavo che avrebbe influenzato il mio modo di vedere la storia e mi avrebbe messo dei dubbi. La scelta è vostra, fate come vi sentite meglio…
Ora arriva la parte più tecnica perché, fino ad adesso, vi siete confrontati con il vostro mondo interiore per scrivere e ora dovrete necessariamente approcciarvi a un mondo ben più spaventoso: quello dell’editoria.
Punto primo: iniziate a fare una lista di casa editrici con cui vi piacerebbe pubblicare, poi scrematelo per bene. La prima cosa è il genere; inutile dirvelo ma è abbastanza assurdo inviare un romanzo rosa a chi pubblica solo gialli (ad esempio). Ma so che succede, quindi fate attenzione a questa cosa.
Punto due: cercate di capire di più sulle case editrici alle quali vi state proponendo. Mi è capitato che, con l’invio del manoscritto, mi venisse richiesta qualche riga per spiegare perché avessi scelto proprio loro. E le frasi fatte… da uno che si propone come scrittore… beh avete capito!
Io avevo già una buona conoscenza del panorama editoriale italiano; ho frequentato fiere, eventi, presentazioni. In passato ho scritto anche degli articoli in merito. Ho frequentato un corso di scrittura e uno di editoria. In più, avevo il naturale interesse verso quel mondo dato dalle mie letture personali.
Punto secondo: forse voi siete fiduciosi nel mondo e ottimisti o disinteressati alla questione ma io non ero così, quindi mi sono posta il problema. E se qualcuno copiasse tutto o parte del mio romanzo? Ho cominciato a informarmi sui blog di scrittori emergenti e ho scoperto di non essere l’unica. Alcuni penseranno: forse te la sei menata troppo. Sì, forse sì. Ma io volevo essere tranquilla. Così, ho chiesto consulenze a chi conoscevo (e anche a chi non conoscevo) sulla tutela del diritto d’autore. Non ho avuto risposte che mi convincevano, quindi mi sono letta tutto lo scibile umano sull’argomento e, alla fine, ho optato per un deposito (senza registrazione del diritto d’autore) presso la SIAE. Se avete bisogno di sapere cos’è scrivetemi a: info@nonprendeteappunti.it.
Punto terzo: l’invio. Eccitazione al massimo! Vi direi di diminuirla ma eccitazione uguale entusiasmo ed è una buona cosa. Spulciate con pazienza tutto quello che la casa editrice vuole le sia inviato e come. Alcune vogliono il cartaceo, altre la mail. Alcune vogliono un estratto, altre l’intero manoscritto. Dopodiché, spedite e sedetevi.
Non vi voglio illudere, la maggior parte se non tutte le case editrici a cui spedirete il vostro libro non vi risponderà o lo rifiuterà. Mi dispiace ma il mondo dell’editoria italiana è così: arrivano veramente tanti inediti che potrebbero rivelarsi un best seller o un fiasco totale. Nel dubbio, molti non vengono neanche aperti.
Qui comincia l’attesa di cui parlo nel titolo, che non deve essere sterile ma sarà lunga. Potete scrivere un altro libro o qualcos’altro, potete rivedere quello che avete scritto e potete continuare a fare la vostra vita. Non fateci ruotare tutto intorno, non contate i giorni. Io, all’inizio, l’ho fatto e vi posso assicurare che non è la via giusta.
E ricordatevi che avete la fortuna di vivere in un’epoca dove, in qualche modo, si può sempre fare. Autopubblicarvi, pubblicizzarvi o semplicemente far passare il vostro pensiero in un’altra forma (tipo, che ne so? Un blog?) O tutte e tre.
Non scoraggiatevi, avete fatto tanto. Mollare ora sarebbe un peccato.
Questa è la parte più divertente, ammettiamolo. Tu, in realtà, lo sai il titolo. Dopo che la tua testa ha partorito ogni genere di combinazione, tu lo sai come si chiama il tuo libro. Ma questo non ti deve impedire di valutare altre idee.
E’ possibile che alla casa editrice non piaccia e che ti chiedano un cambio. A me lo avevano proposto ma poiché la decisione finale era la mia e io ero convinta (dopo averlo chiesto a circa mille persone!), non l’ho modificato.
Il fatto di non saper trovare i titoli, non ti rende un pessimo scrittore. Io sono brava con i titoli; a volte li inserisco mentalmente anche a parti della mia vita come Picasso… Ma ci ho messo parecchio a renderlo il mio titolo definitivo.
Potete sbizzarrirvi con focus group improvvisato davanti a un bicchiere di vino. Ne usciranno cose improbabili ma divertenti… Il titolo è importante, non vi mentirò. Una volta ho comprato un libro solo per quello e ho scoperto una brava scrittrice, Aimee Bender. Magari non leggetela se siete depressi però… Dai, non è possibile non comparare un libro che si chiama “L’inconfondibile tristezza della torta al limone”!
Con tutto che per me non era triste, perché mi piace molto. Probabilmente se il titolo non avesse attirato la mia attenzione non lo avrei mai letto e non mi sarebbe venuta voglia di dolce… ma questa è un’altra storia.
Come ho scelto il mio titolo. Ho cominciato a nominarlo così per salvarlo sul pc e per mandarmelo via mail (fidarsi è bene…) e quando è stato il momento di battezzarlo, l’ho guardato in faccia come un bambino e il suo nome ce l’aveva già. Poiché non mi piace vincere facile, ho inserito un sottotitolo per ogni capitolo (ora siete curiosi eh?)
Ho pensato alla mia protagonista e un po’ lei era con me, quando ho scelto che la sua storia si sarebbe chiamata “Un momento di chiarezza”. Credo che renda esattamente il percorso che volevo per lei: volevo una luce, anche piccola, in una vita che Daisy aveva riempito di oscurità.
E, a volte, è così. Basta un momento, un pensiero che ti attraversa la testa ed è tutto chiaro, semplice. Pensateci un attimo, forse anche il vostro titolo è lì, pronto a essere illuminato.
Questa è stata una settimana molto complicata per me e, come già vi avevo detto, non si può slegare la scrittura dallo scrittore. È un po’ l’ostacolo e anche il valore aggiunto di questo mestiere.
Per cui, oggi mi sento di chiedervi qualcosa di diverso; non dovrete leggere ma scrivere.
Questo è un “esercizio” che mi faceva fare il mio insegnante di scrittura: prendete carta e penna (sì va bene anche un dispositivo elettronico ma io sono della vecchia scuola) e scrivete cinque cose della vostra giornata che vi hanno portato serenità, gioia.
Non c’è bisogno di pensare a poetiche metafore, seguite le vostre sensazioni. Questa cosa che ho visto, sentito, vissuto, mi ha fatto sentire bene? Se la risposta è sì, ecco il vostro momento.
Potete tenerlo per voi o potete condividerlo con gli altri e con me; potete taggare @achiarelettere e, magari, portare un po’ di quella gioia anche a qualcun altro.
Perché il mio insegnante ci faceva fare questo esercizio? Non l’ho mai capito veramente.
Forse voleva che ci abituassimo a scrivere ogni giorno (anche poche righe) o forse voleva che imparassimo a “vedere” e non solo a “guardare”. Forse voleva solo far sentire meglio delle persone che venivano in un’aula una sera a settimana, dopo una giornata di lavoro, alla ricerca di qualcosa. Io penso un po’ tutte e tre le cose.
Posso dirvi che cosa ho imparato io ed è più di una lezione di scrittura. Ho capito che la gioia non è una linea continua ma una serie di momenti. A volte, i più impensabili.
E se in un giorno avete cinque di questi momenti, siete fortunati. Sei? Non fate gli sboroni!
Lungi da me insegnarvi la vita ma imparate a riconoscere questi momenti e a goderveli. Vi servirà anche per scrivere con tutta l’autenticità che solo la vita può dare.
Forza, provateci. Scriveteli e leggeteli, magari ad alta voce. E qualcuno, potrebbe trovare delle sorprese…