Sono un numero. Sono una persona. Sono una di quelle persone nelle statistiche.
Questa è la vera storia di quello che mi è successo nel primo lockdown.
Sono un numero. Sono una persona. Sono una di quelle persone nelle statistiche.
Questa è la vera storia di quello che mi è successo nel primo lockdown.
Probabilmente l’avrete già sentito da qualche parte, soprattutto se scrivete da un po’ di tempo ma “l’atto di ricordare cambia il ricordo stesso“.
Ve ne sarete accorti; spesso raccontiamo lo stesso evento ma con dettagli diversi, a volte addirittura contrastanti. Questo perché la nostra memoria, soprattutto con il passare del tempo, tende a sfocare lo sfondo per concentrarsi sugli eventi principali. Quello che raccontiamo o che scriviamo è la nostra rielaborazione di un particolare ricordo.
Ciò che, invece, rimane stampato nella nostra mente è la sensazione che provavamo in quel determinato momento e questo influisce anche sulla selezione dei dettagli che la nostra memoria si porta dietro.
Per questo oggi voglio fare una cosa diversa, darvi un esercizio pratico, perché va bene la teoria ma, di fatto, uno scrittore deve scrivere.
Il modo in cui rielaboriamo ci rende unici ed è questo che vorrei che faceste: pensate a un momento della vostra infanzia che vi ha dato un’emozione (gioia, dolore, rabbia, solitudine, felicità…) e scriveteci un racconto. Concentratevi su ciò che provavate e non sugli eventi.
Questo è il racconto che ho scritto io quando mi è stata chiesta la stessa cosa ed è anche la prima cosa scritta da me che sia mai stata pubblicata (dalla rivista letteraria Paginauno). E’ liberamente tratto da un ricordo reale della mia infanzia.
NEL PAESE DEI BAMBINI
Sembravano essere lì da sempre e forse era proprio così; messi lì apposta come statuine di un presepe per dare anima a quell’insieme di palazzi.
Era ormai quella disomogenea combriccola di ragazzini a dare orari, suoni e colori all’intero del quartiere, come il motore che alimenta la macchina.
Cominciavano a comparire un po’ alla volta nel cortile già al mattino, ora che era estate, con i loro calzoncini corti e le canotte colorate; si ritiravano nella tana per pranzare o cenare e poi eccoli di nuovo lì, senza scopo né noia, a gironzolare tutto il pomeriggio o seduti a parlare sulle panchine fino a tarda sera.
In quell’afosa giornata di luglio si stavano tirando la palla nello spiazzo davanti alla portineria; l’asfalto era piegato dal calore intenso e i vestiti rimanevano appiccicati al corpo come attratti da una calamita.
Eppure, la piccola comitiva non sembrava risentire dell’infernale temperatura di mezzogiorno. In fondo si sa: nel paese dei bambini non è mai né troppo caldo né troppo freddo!
Valentina, la più alta e scaltra del gruppo, si lanciò per afferrare la palla lanciata malamente da Mattia.
“Ma che si fa, non si va a mangiare?” chiese Sicilia, soprannominato così per la provenienza geografica.
Si era trasferito a Milano solo da pochi mesi e da allora era stato ribattezzato da Laura con il nome della terra natia perché nessuno riusciva mai a ricordarsi quello vero; avevano ritenuto più facile presentarlo come “Lui è Sicilia, per gli amici Sici!”
Impossibile da dimenticare!
“Aspettiamo che ci chiamino!” rispose Laura.
Sici fece una smorfia di disappunto “Speriamo presto allora, mia madre oggi ha fatto la pasta con le sarde!”
“Che schifo!” sbottò Marta.
Marta era piuttosto bassina per la sua età e con qualche chilo di troppo, ma era molto agile e tra loro era l’unica che riuscisse a risalire lo scivolo al contrario, motivo di indiscusso vanto.
“Cosa sono le sarde?” chiese Mattia perplesso.
Sici scrollò le spalle. “Una cosa buona che si mette nella pasta…non lo so esattamente, mia madre dice cittu e mangia!”
Tutti presero per buona la definizione della sarda della madre di Sici.
Marta tirò la palla a Mattia con tutta la potenza di cui era capace ma lui, distratto da uno stormo di uccelli che si levava in quel momento, la fermò con la faccia.
Laura si avvicinò subito al fratello minore: “Oh Matti, ti sei fatto male?” chiese.
“Mmmm…” mugugnò Mattia tenendosi la guancia con una mano; Laura gliela scostò delicatamente e lo vide arrossarsi di colpo e gonfiarsi leggermente.
“No dai non è niente, è la botta, ora si sgonfia! Cavolo Matti, stai attento, adesso se mamma ti vede con quella faccia sai quanto mi rompe! Dai Sici ricominciamo da te!”
Sici riprese la palla e la lanciò in aria senza direzione; quella partì come attaccata ad un razzo e si andò ad appoggiare con un sonoro rimbalzo proprio sul tetto della portineria.
“Allora tu sei nato scemo Sici! Ora ci vai tu a bussare a Carmelo!” sentenziò Valentina.
“No dai Vale…quello mi fa paura!”
E, come evocato, sulla soglia apparve Carmelo, il portinaio, con la sua camicia bianca sudaticcia a coprire la grossa pancia, la testa calva al centro e i baffoni da narcotrafficante colombiano.
“Che avete combinato?” disse in un italiano sgrammaticato.
“Carmelo, ci è finita la palla sul tetto…non ce la puoi prendere?” chiese Laura.
Carmelo scosse la testa. “No è troppo alto, non ci arrivo!”
“Ma con la scala ci arrivi… se vuoi ci vado io!” ribatté Marta.
“No, non si può!” Carmelo si pronunciò ponendo fine alla discussione.
Aveva quello sguardo che evitava ogni tipo di obiezione.
Da tempo ormai tutti avevano capito come funzionava la giurisdizione condominiale: per qualche strana ragione tutto ciò che finiva all’interno del perimetro della portineria diventava automaticamente di proprietà di Carmelo.
In quale antica consuetudine affondasse le radici questa legge a tutt’oggi risulta un mistero!
“Bella Sici davvero! Altra palla persa per sempre!” si complimentò ironicamente Valentina.
“Beh però era un bel tiro…dieci punti almeno!”
“Peccato che non stavamo giocando a punti! E ora che si fa?”
“Campana?” propose non troppo convinta Marta.
“Ma l’abbiamo già fatta stamattina! Lupo mangia frutta?” ipotizzò Laura.
“No… ho già fame così!” borbottò Sici.
“Che palle! Mangiati uno di quei fiori della Madonna…sono zuccherini lo sai, almeno ti bloccano la fame per un po’!” intervenne Mattia.
“Dai facciamo un due tre stella allora? Andiamo sotto il mio portico!” tagliò corto Laura.
Appena arrivati videro una delle loro mamme con ancora le ciabatte addosso e l’aria agguerrita che usciva dal portone.
“Laura…Mattia…è mezz’ora che vi chiamo dal balcone! Dove eravate? E’ pronto da mangiare! Ma Matti” disse notando il volto del ragazzino arrossato “che ti è successo in faccia? Sei viola!”
“Niente mà, è solo un po’ rosso, gli è arrivata una palla in faccia mentre giocavamo!” rispose Laura per il fratello senza menzionare l’autrice del tiro maldestro.
“E tu dov’eri?” chiese la madre rivolta alla bambina.
Laura roteò gli occhi verso l’alto senza emettere fiato, da tempo sapeva che non c’era una risposta giusta a quel genere di domande.
Tentò di cambiare argomento: “Mamma, stamattina Gennaro ci ha buttato giù di nuovo le bistecche! Ci stava quasi beccando!”
“Quell’uomo è malato Laura…con quello che sta la carne al chilo…” disse tastando delicatamente la guancia del figlio.
“Ma mamma…”
“Sì sì” disse la madre dopo essersi accertata che il danno fosse solo superficiale “ magari se voi la smetteste di fare casino sotto la sua finestra la sera…comunque lo dirò a Carmelo…vediamo! Che fate salite a mangiare o no?”
“Io non ho fame” disse Laura.
“Io vengo dopo mà!” si associò Mattia.
“Va bene…” disse la madre riaprendo il portone e mentre andava via “e tu Matti…tieni la faccia lontana dalle palle!”
Il gruppetto sghignazzò.
La madre scosse la testa rendendosi conto in ritardo del doppio senso della sua frase e poi, rassegnata, si trascinò con le sue pantofole fino all’ascensore.
I ragazzi rimasero lì sotto e cominciarono a giocare.
Laura contava: “Uuunnnn….duuue…tre.. stella!”
E si voltò velocemente per percepire un movimento ma rimase colpita dall’espressione di Sici; sembrava stesse soffiando, strabuzzava gli occhi ed era tutto rosso.
“Sici sei fuori!” disse.
“Ma non mi stavo muovendo!” piagnucolò il bambino.
“Si ma con quella faccia da scemo non puoi giocare, mi distrai! Non vedo gli altri!”
“Uffa…lo sapevo che facevo meglio ad andare a mangiare!”
Laura si girò di nuovo e ricominciò a contare…
“Uuuuuuno….du..”
All’improvviso si sentì il rumore di qualcosa che sbatteva con violenza contro il muro dove Laura era appoggiata a contare.
La bambina si voltò di colpo e cercò con gli occhi l’oggetto che aveva provocato l’urto.
Vide qualcosa per terra e si avvicinò; in un secondo anche tutti gli altri si ritrovarono intorno all’oggetto non identificato.
“Gennaro ci ha tirato qualcosa?” chiese Sici spaventato.
“Dall’ottavo piano dell’altro palazzo, non ci arriva qui!” rispose Valentina.
Laura guardò con attenzione: “E’ un uccellino!”
“E’ vivo?” chiese Marta.
Laura lo sfiorò appena con il mignolo e l’uccellino si rimise sulle zampe…fece due passi e tentò di volare ma cadde di nuovo.
“Credo che abbia un’ala spezzata!” affermò Laura.
“Poverino!” disse Mattia “ Laura fai qualcosa, aiutalo!”
Laura non aveva la minima idea di come fare ad aiutare la povera bestiola, stava per annunciarlo al gruppo quando incrociò lo sguardo del fratello che sembrava sul punto di piangere.
“Dai Matti” disse cercando di ragionare in fretta “vai nel garage…prendi una scatola da scarpe e svuotala.. e prendi anche uno dei quei panni che mamma tiene lì per pulire ma non uno sporco mi raccomando!”
Mattia fece sì con la testa e corse verso le scale del box contento di essere utile a quel “piano di salvataggio”.
“Laura ma come fai a prenderlo? Se si muove….” Il dubbio di Valentina era condiviso da tutti gli atri.
“Provo!” Laura pregò che il loro piccolo amico non si spaventasse e che non la beccasse per difendersi dal pericolo.
Si avvicinò piano e allungò la mano lentamente per non innervosire il pennuto, ma questi si lasciò completamente andare al tocco delicato delle dita della ragazzina.
Si adagiò sul palmo delle sue mani senza mostrare alcun segno di combattività.
Laura guardò i piccoli occhi dell’animale che giaceva come se dormisse e realizzò la verità; era probabile che l’unica cosa che potessero fare era allungare la sua agonia.
In quel momento giunse Mattia trafelato per la corsa con in mano quello che lei gli aveva chiesto.
“Ecco!” disse madido di sudore e soddisfatto.
Laura lo guardò e non ebbe il coraggio. “Vieni Matti…metti il panno nella scatola e poi avvicinamela!”
Quando il bambino ebbe fatto, Laura adagiò l’uccellino che si lasciò andare nel cartone con la stessa arrendevolezza con cui si era lasciato prendere la prima volta.
“Ora aspettiamo che si riprenda ok?!” disse Laura rivolta agli altri.
Tutti annuirono, solo Sici mugugnò: “Sì va bene… ma per quanto? La pasta con le sarde…”
Tutti lo guardarono male e lui abbassò la testa, deluso dalla mancanza di comprensione e di appetito dei suoi amici.
“Forse dovremmo dargli un nome!” disse Marta.
“Mazzinga!” propose deciso Sici.
Altro sguardo di disapprovazione. “Ma secondo te ha la faccia da Mazzinga?” lo incalzò Valentina.
Sici alzò le spalle, rassegnato.
“Io pensavo a Cipì…come l’uccellino della storia!” propose Laura.
“Siiiiii!” approvò Mattia ricordandosi di colpo di cosa parlasse la sorella.
Rimasero lì altre due ore seduti in cerchio a giocare a carte e a “nomi, cose, città” con la scatola al centro per controllare il povero uccello, che non dava segni di ripresa.
Poi si spostarono verso il centro del cortile dove c’erano lo scivolo e le altalene.
Laura pensò attentamente a dove potessero lasciare la scatola per tenerla d’occhio ma senza fissarla, voleva che Mattia si distraesse.
La mise tra due cespugli sopra l’erba di modo che stesse all’ombra e raggiunse gli altri che si erano fiondati sui giochi.
Passavano da un divertimento all’altro con quella frenesia che solo l’infanzia possiede.
Ad un tratto si sentì la madre di Sici che lo chiamava a gran voce e il bambino, così contento che finalmente la sua pasta con le sarde lo reclamasse, corse d’istinto verso il balcone per avere conferma che, finalmente, era arrivato il momento di riempire lo stomaco.
Nella foga della corsa non si accorse che la scatola giaceva ancora all’ombra dei cespugli in direzione del palazzo, così che l’impatto con il suo piede fu inevitabile.
Ora, il povero uccellino era riverso sull’erba immobile.
Sici si portò la mano alla bocca e guardò ciò che aveva combinato con un espressione incredula.
Tutti si avvicinarono alla bestiola e Laura provò a toccarlo delicatamente ma.. nessun segnale di vita.
“Ma…è morto?” chiese Marta.
“Credo proprio di sì” disse Laura guardando Mattia ma intendeva che non c’erano dubbi.
“Sici…lo hai ammazzato…sei proprio un deficiente!” sbottò Valentina.
“Ma io…io ….non volevo…non l’ho visto!” si difese il bambino con le lacrime agli occhi.
Laura continuava a guardare il fratello che fissava l’uccellino con aria perplessa.
“Ma…mica per sempre?” la domanda sembrava frutto di una profonda riflessione.
“Cosa per sempre?” chiese Laura.
“Non è mica morto per sempre vero?”
Laura sospirò cosciente della bugia che stava per dire: “No…magari un giorno…” rispose.
Mattia sembrava soddisfatto della risposta, quasi sollevato.
Laura disse: “Dai andatevi a prendere un gelato…io vi raggiungo! Tieni i soldi Matti!”
Tutti si mossero tranne Sici, che rimaneva impalato a fissare la scena: “Dai Sici…vai a mangiare che la pasta si raffredda…non ti preoccupare…lo sappiamo che non l’hai fatto apposta!” lo rincuorò la ragazzina.
Ancora non sapeva che, probabilmente, la sua maldestra goffaggine aveva compiuto un involontario atto di misericordia verso un esserino sofferente.
Ora c’era solo Laura, lei era la più grande del gruppo, era sempre stata intelligente, era lei a decidere nel gruppo quando c’era incertezza, era lei a badare a tutti, oltre che a sé stessa.
Prese il piccolo pennuto ormai senza vita, lo portò all’albero che stava al di là del cortile dove c’era il vecchio cancello rotto, scavò una buca abbastanza profonda con le mani e ve lo depose dentro.
Poi cercò un sasso appuntito e incise sul tronco: “CIPI’ 16-07-1990”.
Rimase un attimo a guardare quella tomba improvvisata; pensò che oggi faceva davvero caldo.
In fondo, si sa, nel paese dei bambini non fa mai né troppo caldo né troppo freddo e non esiste la morte.
FINE
Ora aspetto i vostri racconti.
Una volta lessi un post sulla mia pagina di Facebook; a quanto pare, era la giornata mondiale della lentezza. Per prima cosa ho pensato: ma tutti i giorni è la giornata mondiale di qualcosa? Poi ho pensato: sarà mondiale ma a Milano la lentezza è un’utopia. E poi l’ultimo pensiero, la vera idea: e se per un po’ vivessimo davvero tutti più lentamente? Che succederebbe? Ne è nato un racconto.
All’inizio, come molti, pensavo che il racconto fosse un genere minore. Il romanzo cavolo! Era quello a cui puntavo. Poi, dopo aver letto Buzzati, A.Munro, Richard Yates, Dorothy Parker e tanti altri, ho scoperto che avevo torto e ho capito che un vero scrittore è capace di scrivere un buon racconto. Ergo, non è così facile scrivere un racconto.
Quello che non tutti sapete è che, prima di avere questo bellissimo blog, ne ho avuto un altro altrettanto bello (ancora attivo) con due meravigliose amiche e scrittrici: Unastanzatuttapertre. Qui abbiamo raccolto tutta una serie di racconti brevi da noi scritti. Per quanto mi riguarda, l’importanza di questo progetto e la scrittura di racconti brevi è stata fondamentale per arrivare a scrivere un libro.
Ma come si scrive un racconto? Analizziamo i punti principali.
Lo spunto: può essere davvero qualunque cosa. E non sono troppo generica. L’ispirazione può arrivare da ciò che avete visto o sentito, da una persona che avete incontrato, da una vostra esperienza o da un sentimento che state vivendo o avete vissuto. Ma ne sto sicuramente dimenticando qualcuno.
Il racconto breve: si articola solitamente in poche pagine. Tre o quattro al massimo. In Unastanzatuttapertre, l’obiettivo era addirittura di stare in una pagina e mezza/due (sempre più difficile). Dovevano bastare cinque minuti a leggerli. E’ questa la caratteristica che dovete perseguire in un racconto breve. Due/tre pagine sono troppo poche per creare una trama di senso, un percorso di cambiamento plausibile per uno o più personaggi. Dovete immaginare il racconto breve come una fotografia, come un lampione che illumina una scena. E in quella scena, c’è la vostra storia. Per fare questo, mostrare e non descrivere (come abbiamo già visto) è necessario.
Il racconto lungo: solitamente (ma non obbligatoriamente) è tra le trenta e le sessanta pagine. Ovviamente, con più pagine, aumenta lo spazio di manovra. La storia si può comporre di più azioni, il percorso dei personaggi si allunga e le situazioni possono modificarsi (tutto nel limite del plausibile). State, però, molto attenti: non sbrodolate. Non finirò mai di scrivervelo. E’ vero, io sono un amante del poco ma buono ma ho davvero letto racconti lunghi che potevano tranquillamente diventare racconti brevi e ci avrebbero guadagnato.
Il finale: sempre una questione complicata. Nel racconto lungo, usate il principio del romanzo: sbizzarritevi. Ma mi raccomando, non tirate fuori il coniglio dal cappello. Se i conigli non vivono nei capelli un motivo ci sarà no? Per il racconto breve vi dico solo questo: una foto finisce? Non scrivete per arrivare al finale ma per lasciare un’immagine.
Quello che vi posso assicurare è che vi sarà utile scrivere racconti, vi darà un nuovo metro per valutare, la capacità di togliere il superfluo e, se riuscirete a mostrare e a scrivere un bel racconto, avrete vinto su tutta la linea.
Per correttezza, devo dirvi che è molto difficile che un esordiente riesca a pubblicare (con una casa editrice intendo) un racconto o una raccolta di racconti. E’ un genere meno diffuso, meno letto e quindi meno venduto.
Dall’altro lato, mi sento di fare una critica: ho letto racconti molto più belli e meglio scritti di romanzi (no, non vi dirò quali) o addirittura di trilogie (no, non vi dirò neanche questo).
Questo ci riporta alla mia considerazione iniziale: un bravo scrittore sa scrivere bene anche i racconti.
Su richiesta di una lettrice del blog, oggi ci dedichiamo a un argomento su cui molti scrittori o futuri tali s’interrogano: i concorsi letterari. Mi sono accorta che c’è molta confusione su questo tema e vorrei darvi un paio di dritte che ho imparato partecipando io stessa ad alcuni di essi.
Se cercate online, troverete concorsi di tutte le forme e i colori. Io, di solito utilizzavo questa pagina ma ne esistono molte altre. Non sarà difficile trovarne uno che faccia al caso vostro.
Partiamo, innanzitutto, dal presupposto che un concorso è un buon esercizio di scrittura; avere un obiettivo, un tema (ma anche senza), una scadenza e una lunghezza da rispettare non può farvi che bene. Disciplina un’attività che, di solito, tra gli scrittori non professionisti è molto caotica e disordinata.
Inoltre, vi permette di cimentarvi con la scrittura del racconto breve che, come ho già scritto più di una volta, sarà di enorme aiuto per passare poi a un romanzo vero e proprio. A questo proposito, la settimana prossima scriverò un post sulla costruzione del racconto.
Ma torniamo ai concorsi. Vi ho parlato del racconto perché, di solito, è questa la tipologia di scrittura richiesta (a meno che non sia un concorso di poesie). In pochi, come il premio Calvino (che però gode di un certo prestigio e richiede un contributo d’iscrizione abbastanza alto), sono esclusivamente per libri finiti.
Molti sono organizzati da associazioni culturali e da biblioteche e alcuni hanno come temi argomenti molti stimolanti e problematiche sociali. Io, ad esempio, ho partecipato a un concorso della biblioteca di Carugate sul tema dell’alimentazione. Spoiler: non ho vinto.
Il punto è capire perché vorreste partecipare a un concorso letterario; se lo fate per mettervi in gioco, per far leggere i vostri scritti a qualcuno che non sia la vostra migliore amica o semplicemente per fare un tentativo, io vi direi di buttarvi senza problemi. Tentare non costa nulla (se il concorso è gratuito).
Io, da parte mia, volevo visibilità. Volevo scrivere un romanzo un giorno ma avevo anche dei racconti a cui tenevo molto e volevo che venissero letti. Di nuovo spoiler: poi ci sono riuscita in un altro modo (ma di questo parleremo la settimana prossima).
Io non so dirvi se un concorso letterario vi porterà visibilità. Con me non lo ha fatto, magari con altri sì. Io ho tentato perché ho pensato che le possibilità di essere “trovati” con un piccolo concorso erano davvero difficili ma essere “trovati” se non sei da nessuna parte era impossibile.
La questione premio. I premi possono essere tra i più disparati (dal set di prodotti da bagno a una somma di denaro), dipende da chi organizza il concorso ma, molto spesso, c’è in palio una pubblicazione in una raccolta che poi verrà in qualche modo distribuita o venduta.
Per questo, è molto importante leggere attentamente il bando: cercate di capire, a concorso concluso, vinto o meno, che fine farà la vostra opera. Il diritto d’autore è vostro ma potrebbero specificare che cedete il diritto di riproduzione (che è poi quello che acquista da voi una casa editrice) per l’utilizzo indicato e per eventuali altri futuri.
Inoltre, in caso di pubblicazione della raccolta, state bene attenti che il bando non preveda l’acquisto obbligatorio di un totale di copie da parte degli autori stessi. Magari per voi può andare bene ma siatene consapevoli dall’inizio per evitare spiacevoli sorprese.
Se il bando non vi sembra chiaro, non esitate a chiedere informazioni al numero di telefono o alla mail che vengono indicati per eventuali comunicazioni. Dovrebbe esserci sempre almeno uno dei due.
Un’ultima piccola considerazione: ho notato che, spesso, questi concorsi vengono vinti da racconti molto “classici”. Non voglio dire che sia una cosa negativa (se il racconto è bello, è bello e fine) però un concorso letterario ha davvero la possibilità di fare uno scouting tra scrittori molto diversi tra loro. Potrebbero utilizzare meglio l’occasione e provare nuove strade. Chissà, magari funzionano.